Cavaliere e poeta napoletano, signore di Prata
Fra i personaggi illustri che nel tempo sono stati signori di Prata va ricordato Berardino Rota, poeta molto noto nella Napoli del Cinquecento, il quale ebbe anche modo di celebrare la sua presenza a Prata dedicando al fiume Lete un epigramma in latino. Berardino nacque a Napoli nel 1509 e vi mori nel 1575. Suo padre, Antonio, aveva sposato Lucrezia Brancia e ne aveva avuto dodici figli; Berardino era il sesto dei fratelli e nonostante il valore dimostrato in giovinezza nell’esercizio delle armi, tanto da essere insignito del titolo “Cavaliere dell’Ordine di San Giacomo della Spada” presto preferì dedicarsi interamente alle lettere avendo come maestro ed amico Marcantonio Epicuro, poeta napoletano .
La famiglia Rota proveniva da Asti ed era scesa a Napoli al seguito delle truppe di Carlo I° d’ Angiò. La conferma che fosse originaria del Nord Italia è data da un epitaffio posto su una delle tombe nella Cappella di famiglia in San Domenico Maggiore a Napoli sulla quale è scritto: “…Johanni Rotae Riccardi F. Equiti Cuius Majores e Gallia Cisalpina Genere Clari…” Berardino nacque ai primi di un secolo che vide istaurarsi a Napoli la dominazione spagnola. Nell’agosto 1501 era partito da Ischia alla volta della Francia l’ultimo dei re aragonesi, Federico, che negli ultimi tempi era stato soccorso economicamente dai suoi stessi baroni (fra cui Antonio Rota, padre di Berardino) ed iniziava per Napoli un lungo periodo di servitù sotto il dominio dei viceré spagnoli. La dinastia aragonese era stata decisiva per il rinnovamento della cultura napoletana nella seconda metà del Quattrocento e con l’avvento degli spagnoli sembrava che dovesse venir meno quella fioritura umanistica alimentata dalla magnificenza della corte degli aragonesi. Tuttavia nonostante la presenza dell’ombroso governo spagnolo, la tradizione letteraria riprese nuova vita ed il volgare tenne il campo con l’imitazione del Petrarca e del Boccaccio. Mancava certamente una unità politica, ma i letterati napoletani stretti in una unità letteraria di scuole e di gusti, sostenuti da amicizie personali con i colleghi delle altre regioni italiane, dettero vita ad una copiosa produzione.
Benché non sia da considerarsi un caposcuola, Berardino diventò fra i più noti poeti di quel tempo anche se, da quanto affermano alcuni studiosi che stimano le sue composizioni piuttosto contorte ed oscure, deve in parte le sue fortune letterarie alla nobiltà ed alla ricchezza della famiglia. Berardino ebbe vasti e vivaci rapporti con i maggiori letterati del suo tempo e non solo a Napoli: fu amico del Di Costanzo, di Annibal Caro, di Scipione Ammirato; a quest’ultimo si deve il commento dei sonetti, stampati per la prima volta a Napoli nel 1560. Si tratta di una prima raccolta di eleganti e teneri versi dedicati alla moglie Porzia Capece che Berardino aveva sposato a 35 anni, dalla quale aveva avuto sei figli e che venne a mancare improvvisamente nel 1559.
Mentre Berardino si dedicava interamente alle lettere, gli altri membri della famiglia continuavano a combattere in tutte quelle situazioni che si presentavano avverse alla sovranità ricevendo privilegi tra cui quello concesso nel 1536 da Carlo V° ad Alfonso, fratello di Berardino, privilegio che consentiva di porre sullo stemma di famiglia (una ruota d’oro in campo azzurro) l’aquila imperiale coronata con le ali distese che abbracciano lo scudo delle armi dei Rota. Lo stesso padre di Berardino, Antonio, fu sempre in ottimi rapporti con la corte aragonese fino alla partenza di Federico; sul portone del palazzo Rota in Via S. Chiara fece porre un arco di marmo con una iscrizione che commemorava la vittoria di Ferdinando II° e ricordava nel contempo la sua personale fedeltà al Re. Con la morte del penultimo dei fratelli, Berardino all’età di 56 anni rimase il solo erede della famiglia e quindi anche della Baronia di Prata.
Non è dato sapere se egli abbia avuto occasione di trattenersi a lungo in questo possedimento, è certo comunque che dovette visitarlo ripetutamente intrattenendosi anche nei dintorni del Borgo poiché dedicò al fiume Lete un epigramma in latino. La produzione letteraria di Berardino, costituita principalmente da rime, è conosciuta sotto il titolo delle diverse edizioni delle sue opere: per queste composizioni usò il latino ed anche il volgare. Nel 1559 vennero pubblicate le “Egloghe Piscatorie”: quattordici sonetti nei quali descrive la marina di Napoli, Mergellina ed i colli di Posillipo immaginando di vederli dal mare. Compose quindi “I sonetti in morte della Signora Capece sua moglie” (edizioni del 1560 e del 1567) ai quali nella edizione successiva del 1572 vennero aggiunte altre rime tra cui gli “Epigrammi” che comprendono anche la poesia dedicata al Lete. Sembra inoltre che abbia scritto due commedie delle quali parlano i suoi contemporanei e che furono “…recitate già da molti anni in Napoli con infinito plauso e con isplendido e regale apparato….”; il testo di tali opere non compare tuttavia in nessuna delle edizioni come anche nessun riferimento viene fatto da parte dell’autore stesso. Considerata la cura meticolosa con la quale il Poeta seguiva la propria produzione letteraria è probabile che egli volesse rivedere questi testi prima di consegnarli alle stampe e che poi siano perduti.
La Famiglia Rota fu presente a Prata a lungo anche dopo la morte di Berardino; suo figlio Antonio è citato ripetutamente in un documento depositato presso l’Archivio di Stato di Napoli titolato “Baronia di Prata” e relativo alle tasse da pagare a seguito della morte del padre. Deve essere stato lo stesso Antonio a promuovere l’installazione di un organo nella Chiesa del Convento di S. Francesco a Prata così come si trova scritto in un manoscritto di uno studioso locale circa gli abbellimenti del Convento stesso: “…il detto organo lo fecero fare i Sig.ri Principi Rota nell’anno 1584 che erano padroni di Prata.” Ad Antonio succedette il figlio Francesco e a questi fu inviata ingiunzione di pagamento ( in data 11 maggio 1588 ) delle tasse di successione per la morte del padre Antonio “…per la morte del feudatario Antonio Rota fu espedito contro Francesco Rota suo figlio…” Una ulteriore conferma è data da un documento conservato presso l’Archivio Segreto Vaticano relativamente all’anno 1626: “… in Terra Pratae eorundem DD. Baronum de Rota…”. Solo al 1707 risale il documento relativo al “relievo a carico del feudatario successore D.Nicola Invitti Marchese di Prata per la morte di suo padre Don Carlo seguita a19-6-1705”.
Dunque in questa data subentra a Prata, una nuova famiglia di feudatari, ma mentre questi ultimi avranno nella Chiesa di S. Francesco un luogo di sepoltura sottolineato da una bellissima lapide, un solo discendente dei Rota risulterà seppellito nel convento per il cui abbellimento essi tanto si adoperarono “…quando si entra in Sacristina si montano due gradini ed a man dritta quando si entra vi è un campanello ed all’angolo vicino al campanello vi è lo tavuto dell’Ecc.mo Simone Rota Signore di Prata…”.